Pascolo permanente

Quando si parla di pascolo permanente, o per lo meno quando se ne parla chiamandola permanent pasture, si intende una gestione del suolo a foraggio che esce dallo schema della rotazione pluriennale. Si tratta quindi di appezzamenti che vengono sempre lasciati a prato, sostanzialmente. La scelta sta semmai fra i due modi in cui si pensa di far giungere il prodotto (foraggio) a destinazione (stomaco delle bestie): o la montagna va a Maometto, cioe’ si falcia per fare il fieno che poi verra’ dato alle bestie, o Maometto va alla montagna, cioe’ si portano le bestie a pascolare sul campo a pastura. I risultati, in termini di specie botaniche che tendono a stabilirsi e quindi di aspetto che l’appezzamento assumera’ col tempo, sono alquanto diversi.

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Anche senza troppo doverci riflettere, e’ chiaro che un campo destinato a fienagione in modo prevalente o esclusivo, col tempo si impoverira’; mentre un campo destinato al pascolo (il pascolo permanente vero e proprio) al contrario col tempo costruira’ una fertilita’ sempre crescente.

Come al solito, a noi (inteso come noi italiani) e’ per lo piu’ preclusa la verifica di  quali livelli estremi possa raggiungere un fenomeno come quello appena descritto. Per noi un periodo di cinquant’anni di pascolo permanente puo’ rappresentare una frontiera il cui raggiungimento dipende da molte fortunate coincidenze, ovviamente richiedenti la complicita’ di piu’ generazioni.

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Anche soltanto ipotizzare un campo che fin dal medioevo non sia mai stato non solo fertilizzato artificialmente o diserbato chimicamente, ma addirittura neppure mai coltrato o estirpato o altrimenti coltivato, per noi e’ pura fantastoria. Basti pensare alle scorrerie di eserciti di ogni nazione che hanno percorso in lungo e in largo il nostro paese senza interruzioni dai tempi delle cosiddette invasioni barbariche della tarda antichita’.

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Ebbene, questo lusso  e’ invece qualcosa che nel paese che non conosce invasione belligerante almeno a far data dal 1066, e’ dato non solo ipotizzare, ma ammirare e coltivare (sia nel senso di coltura che di cultura; e perche’ no, di culto).

Nella prima foto e’ raffigurato uno di questi campi, come specifica la descrizione nel cartello della seconda foto messo a pascolo dopo il taglio del fieno, in modo che alle bestie vada la ricrescita. I campi cosi’  gestiti sono i famosi meadows.

Nella terza foto e’ raffigurato invece un  sistema molto civile, al limitare di uno di questi meadows, per impedire alle bestie di andare chissa’ dove senza pero’ impedirlo agli umani.

 

Schidione

Spiedo

Spiedo. Erbolo (Gaiole in Chianti SI) autunno 2008

Detto anche spiedo. E’ quello che due giorni fa, finalmente libero dai bollori estivi che impediscono sane attivita’ come quella mostrata nella foto, mi sono fatto per dichiarare aperta la stagione delle godurie autunno-vernine. Un classico della mia tradizione familiare e personale. Servono pazienza, determinazione a godere, amore feticistico per i dettagli, piu’ gli altri ingredienti citati sotto.

La sequenza degli infilzandi e’: crostino, foglia d’alloro, fegatello, f.d’a., salciccina, ri-f.d’a., pezzo d’arista, fda, crostino… ad libitum fino a completamento della lunghezza dello schidione o esaurimento ingredienti. Nota per gli stranieri: il fegatello, da non confondersi con il fegatino che e’ di pollo o coniglio o animale a carni bianche, e’ un involto preparato farcendo un pezzo di fegato di maiale con un pezzettino di lardo, salando pepando e avvolgendo il tutto nella ratta, o rete, che e’ quel tessuto connettivo che racchiude le viscere. Guerre di religione avvengono attorno all’odore che deve accompagnare questa preparazione, se il finocchio (c’e’ chi usa proprio un ciuffetto di semi di finocchio selvatico con tanto di rametto secco a mo’ di stecchino per suggellare l’involto) o se invece l’alloro. Io, salomonicamente, non ho dubbi: finocchio se il fegatello lo cuocio al tegame, rigorosamente alloro se deve finire in uno spiedo come in questo caso.

Fegatelli, arista, alloro.

Fegatelli, arista, alloro.

C’e’ chi esagera e aggiunge allo spiedo pezzi di pancetta fresca, ma la sequenza minima di base nonche’ quella cui sono affezionato, perche’ amo le cose essenziali, e’ questa che ho dato.
La cottura ideale e’ lenta, cioe’ lunga qualche ora, e questo e’ possibile solo a una distanza di una sessantina di cm dal fuoco che deve dal canto suo essere bello vivo, ossia non come quello che si vede nella foto, ma tanto li’ eravamo quasi in chiusura e non valeva sprecare altra legna. Sotto all’arnese va un altro pezzo fondamentale dei parafernalia: una leccarda, o ghiotta (entrambi i nomi sono tutto un programma) per raccogliere gli umori e l’unto che colano. Colata questa che abbisogna di un innesco iniziale, passando un paio di volte con un’oliera lungo tutto lo spiedo, indugiando opportunamente in corrispondenza dei crostini e dei fegatelli. Dopo, quando si vede che tendono a raccogliersi due pozzette d’unto nelle coppe della ghiotta, si tratta di raccogliere da queste e di riversare sull’arrosto che gira, con pazienza e costanza. L’arrosto deve sempre lustrare d’unto e colare, altrimenti si risecchisce.

A un certo punto avanzato una spruzzatina di vino rosso non ci sta male. Volendo fare le cose proprio da signori, anche di vinsanto, di quello molto secco, ovviamente. Se si fanno le cose per benino, dopo un tre orette siamo al punto. Volendo si puo’ fare tutto piu’ rapidamente, in meta’ tempo o anche meno, e per far cio’ si sara’ usato per forza un calore troppo violento, cioe’ si sara’ posto lo spiedo troppo vicino al fuoco. Non vale proprio la pena perche’ il risultato non e’ paragonabile: si sara’ persa la sconvolgente morbidezza dei fegatelli e dell’arista, mantenuta invece con una lenta cottura. Del resto non avrebbe senso attraversare tutto questo lavorio per poi sbracarsi per la fretta di concludere.
Se si segue la tradizione questa portata dovrebbe essere il culmine delle pietanze, dopo altre quali: lesso, umidi, oppure sformato col cibreo, insomma quelli che l’Artusi chiama “i tramessi”.

Nell’occasione della foto, motivata da fitte di nostalgia che da giorni si erano fatte insopportabili, la progressione e’ stata:

antipasto di affettati, sottoli e crostini di fegatini di pollo (senza milza);

tagliolini appena fatti, lessati in un brodo di gallina, coda e punta del cardinale e conditi nel coniglio (un ragu’ ottenuto stracuocendo e disossando un coniglio e aggiungendogli in chiusura i relativi fegatini cibreati, tutto rigorosamente in bianco);

un assaggino del lesso di cui al brodo suddetto, con i sottaceti di rito (mancava una salsina opportuna per mancanza del tempo necessario a prepararla);

sformato di carciofi con cibreo di rigaglie di pollo;

lo spiedo in questione;

pinolata.

Quesito (con concorso a premio): nella parte dello spiedo, e nella foto, manca qualcosa di molto importante. Cosa?

Il primo che risponde correttamente vince un invito a partecipare alla mangiata di uno di questi cosi, prossimamente.

Sospensione d’i’ricreativo…principia a avviare i’curturale…

…Per me, beninteso, ossia “nell’economia” della mia vita. Come per dire: cominciamo a fare sul serio, solo dicendolo il meno seriosamente possibile (e chi non avesse presente quel film da culto che e’ “Berlinguer ti voglio bene”, puo’ avere un’idea dalla scena d’i’ dibattito).

Alla fine mi sono deciso: e apriamolo questo blog. Quel che e’ destinato a essere, il suo scopo, eccetera sono tutte cose che ancora non so. Diciamo che forse mi viene qualcosa da dire, che forse ho voglia di farmi una chiacchiera con qualcuno.

Uscio verde

Uscio verde. Armaiolo (Serre di Rapolano SI), estate 2008

Chi mi conosce sa gia’ un po’ quello che chi non mi conosce, via via apprendera’ dando un occhiata a questo blog. Francamente io stesso non so bene in quale di questi due gruppi mettermi: e’ in gran parte con l’idea di pensare ad alta voce, infatti, di fare una chiacchiera tra me e me per conoscermi un po’ meglio, che “principio a avviare i’curturale”…